Gigi Proietti e la radio

Ricoverato per problemi cardiaci il grande attore è deceduto il 2 novembre 2020 giorno del suo ottantesimo compleanno. Tanti giornalisti lo hanno ricordato per i suoi lavori in teatro, al cinema e in tv. Io voglio ricordare il Gigi Proietti radiofonico. All’inizio degli anni ’70 fu nel cast di Gran Varietà, con il personaggio er ladro che progetta furti che non vanno mai in porto e il Conquistatore di donne, bravo soltanto nella teoria ma non nella pratica, del quale diventerà celebre il suo tormentone “invidiosi”. Nel 1980 presenta, sempre in radio, Il baraccone settimanale della domenica di Casco, Gregoretti, Pazzaglia e Zucconi con Giorgio Bracardi e Mario Marenco.in onda su Radiodue la domenica alle 09,35 per la regia di Massimo Ventriglia (poi di Paolo Lepore). Nel 1983 Proietti presenta Oggi come oggi, divagazioni festive di un uomo eccezionalmente normale trascritte da Enrico Vaime regia di Paola Tomassini in onda su Radiodue la domenica alle ore 11. Proietti torna in radio nel 1988 su StereoUno con Musica e altro: musicalmente parlando, programma a cura di Renato Briante. Nel 1994 è nel cast di Quel famoso Gran varietà, pagine scelte della rivista che vanta più più tentativi di imitazione.

STORIA DELLA RADIO

Ciao Gi, Gigi Proietti parla di Gigi Proietti (grazie a Ruggero Righini)

Da ragazzino, le mie prime “esibizioni”, chiamiamole così, le ho fatte da cantante, nel coro della mia parrocchia. Ero una voce bianca, anche se oggi non si direbbe. Il parroco, don Giovanni, amava le messe cantate e io mi divertivo molto. La “carriera”, però, durò poco, perché da un giorno all’altro, dopo un’influenza, mi svegliai all’ improvviso con la voce scura che ho ora e perciò il coro delle voci bianche per me, finì lì. 

Da ragazzo, ero invidioso di mia sorella più grande che andava a lezione di fisarmonica perciò, dopo una promozione, imposi a mio padre di regalarmi per Natale una chitarra con cui presi a frequentare le lezioni del maestro. E da lì cominciò un’altra “carriera”, sempre in giro per parrocchie. 

Con i miei ho fatto fatica. Mi volevano laureato e invece io mi incaponii sulla musica. La svolta fu quando iniziai a guadagnare qualcosa suonando. Io con la chitarra cominciai ad esibirmi, strimpellando, per ridere, davanti a un gruppo di coetanei, appena iscritti come me alla facoltà di Legge. Ero già al liceo, all’Augusto, mettemmo su un complessino scalcinato e provavamo in un magazzino di formaggi dietro la stazione Termini. Io ero il chitarrista ma per una serie di coincidenze mi trovai a provare a fare il cantante. E mi trovai bene. Cominciò una lunga, divertentissima stagione nei “nights”. Molto faticoso. Ma utilissimo. Tutte le sere si andava avanti per sei, otto ore. Negli anni mi sono costruito un repertorio musicale enorme che ho potuto riutilizzare nell’ arco della mia carriera, spesso in termini parodistici. Così come ho riutilizzato moltissimi caratteri e personaggi incontrati in quell’ ambiente. E’ stata una grande scuola. 

Ma dopo un po’ mi stancai di avere un uditorio così limitato e un po’ per scherzo un po’ per piacere personale cominciai a raccontare delle barzellette inframmezzate da piccoli intermezzi comici. Poi mi misi a canticchiare brani di celebri canzoni del passato nelle trattorie dove andavamo dopo aver faticato sui libri a gustarci una pausa ristoratrice. Mi chiamavano Gigi Progetti, e un certo caos c Proprio lì, abitava Lucio Battisti. Quand’ero ragazzo suonavo tutte le sere alla Taverna Margutta o al Florida, dalle 10 di sera alla 5 di mattina. Nell’ambiente musicale ci conoscevamo tutti e “il riccetto” era molto considerato. Lucio era un fenomeno della chitarra elettrica. Come si dice a Roma: smanicava. Aveva tecnica. Era in gamba. Ai tempi de Il Circolo Pickwick di Ugo Gregoretti, nella mia ignominia, composi qualche canzone. Avevamo bisogno di un arrangiatore e chiesi a Battisti: “Ho altro da fare”, mi disse. Che presuntuoso, ma chi se crede d’esse?, pensai. Era il 1968. Di lì a poco uscì il primo dei suoi capolavori. Se avessi voluto morire giovane avrei potuto continuare a cantare, sì. Per fortuna capii che ognuno deve fare il proprio mestiere. Quello creativo è rimasto. Sotto la scritta professione, sui documenti c’è stata per anni la parola orchestrale. 

A dir la verità non l’ ho deciso mai quando la musica, lo spettacolo, sarebbe diventato il mio lavoro. All’inizio ti stupisci che qualcuno ti possa pagare per suonare o recitare. Poi no, diventa dura, quando la gente ti conosce cominci ad avere delle responsabilità e ti rendi conto che questo può essere un mestiere pesante e nevrotizzante ma all’inizio è tutto bello. Secondo me mi portò fortuna proprio la chitarra di mio padre. La prima scrittura come attore la trovai perché ero un chitarrista. Cercavano un ragazzo che, oltre a dire due battute, sapesse anche strimpellare la chitarra e io fui avvantaggiato perché allora gli attori facevano solo gli attori e quasi nessuno sapeva anche cantare o ballare. In realtà tra le due cose io non ho mai scelto. Ripensando alla mia carriera è chiaro che la musica mi ha accompagnato sempre, anche se me ne sono accorto poco. La mia popolarità è legata a un tipo di teatro molto aperto in cui la musica ha un ruolo fondamentale. Ma anche quando facevo il teatro “di ricerca”, la sperimentazione, la musica è stata sempre presente nel mio lavoro. Una volta feci addirittura una suite sul cantico delle creature di Petrassi all’abbazia di Fossanova. Un’esperienza molto lontana da quella che era la mia immagine popolare ma una grande esperienza. 

Il palcoscenico per meè stata una meravigliosa avventura che mi è capitata addosso quasi senza volere perché una sera (del 1963) in una di quelle meravigliose trattorie romanesche, che oggi purtroppo cominciano a scomparire, si presentò un grande attore e mimo come Giancarlo Cobelli. Che mi disse: “Ma lei caro, deve fare assolutamente del teatro”. Io gli risposi, che per fare teatro ci volevano gli attori. Io non sono un attore sono solo un povero pazzo che dice tre o quattro barzellette tra una lezione e l’altra all’università. Siamo un gruppo di amici che ambiscono soltanto a divertirsi. Al che Cobelli mi rispose piccato, mi dispiace molto perché lei dimostra un talento che s’ incontra di rado anche tra i giovani che frequentano l’Accademia d’arte Drammatica. Dopodiché facendomi un cenno di saluto se ne andò. Non lo rividi per qualche tempo.  

Andò a finire che tra i miei incontri fortuiti ci fu quello con Vittorio Gassman. Che proprio all’università venne a raccontarci qualcosa della sua vita di palcoscenico.  Io andai ad ascoltarlo incuriosito dal fatto che un uomo così importante dalla vita bizzarra e tumultuosa, venisse a parlarne con noi. Cosa ci disse non me lo ricordo. Ricordo soltanto che mi stupì per la sua umiltà quando gli chiesi come mai avesse trionfato così giovane allestendo testi che andavano da “Otello” a  “Amleto”. Mi rispose che, ad aiutarlo, era stata la sua innata timidezza che non lo lasciava mai neppure quando uscì dall’Accademia. Ma dovevo pur cominciare a farmi valere. Così capii che la paura che mi aveva da sempre attanagliato era una falsa pista. Poi cominciò a dialogare con noi come se fosse appena tornato da un allenamento. Allora non sapevo che era stato anche un grande campione non mi ricordo più se di pugilato o di atletica leggera. Glielo chiesi e lui mi rispose: “Bisogna pur gonfiare i muscoli se si vuole recitare”. Così mentre gli ricordavo il mio piccolo curriculum di cantante attore lui mi rispose: “Perché non viene a trovarmi uno di questi giorni così vedrà come recitano i miei attori. E poi andiamo a berci una bella birra”. Fu cosi continuai a frequentarlo molto amichevolmente. A quel punto decisi che il teatro sarebbe stato la mia vita. All’inizio sia io che Gassman pensavamo che il mio lavoro teatrale dovesse incanalarsi in una carriera d’attore drammatico. Avrei potuto lavorare in teatro con Vittorio Gassman. Mi propose di dividere la scena in Otello, ma rifiutai il ruolo di Jago. Perché a volte si fanno sciocchezze terribili. Non mi sentivo pronto e sapevo che la sfida era impari. Glielo dissi: “Sai com’è ’sta storia tra Jago e Otello, Vittorio?”. “No, com’è?”. “Se vinci tu sto male, se vinco io mi dispiace, meglio se restiamo amici e andiamo a cena insieme”. Ancora me ne pento. Ai tempi dell’avanguardia, evolversi, leggere, studiare e documentarsi era quasi un obbligo. Poi anche l’avanguardia smise di essere tale e si trasformò in conformismo, slogan e doppiopetto ministeriale. A chi si ostinava a sostenere di perseguire un teatro di ricerca, Gassman rispondeva sempre: “Sospendete le ricerche, almeno per un po’”. 

Fu a questo punto che mi ritrovai a soccombere a quel grande tentatore di Cobelli. Probabilmente, oggi avrei esitato prima di dare il mio sì incondizionato a quella stranissima prova che stava per incombere su di me. Ovvero quello strano Music Hall che  s’ intitolava “La caserma delle fate” (1964).  Che ebbe successo ma che per noi attori fu molto travagliato perché di un vero e proprio copione non si poteva parlare. Infatti da regista attore Cobelli aveva confezionato da sé il copione. Ma ogni giorno, a seconda di quelle che chiamava “ intermittenze del cuore”, come quelle di Proust che stava leggendo in quel periodo, si divertiva ad aggiungere tre o quattro rime, dieci versi di una canzone inedita, cancellando battute su battute per sostituirle con altre. Tutto quanto poi era complicato dal fatto che anche Cobelli recitava con noi e come un invasato continuava ad andare su e giù dal palcoscenico cercando dei guizzi estemporanei per farli subito dopo ripetere a noi che non avevamo la sua esperienza. Erano gli anni in cui nei suoi spettacoli cantava, insieme a Laura Betti, canzoni scritte da Missiroli, da Arbasino e da Piovene che noi avremmo dovuto far da coro. Fu comunque una grossa esperienza che mi insegnò che cosa fosse la disciplina di palcoscenico sforzandomi di non di non spezzare quell’incanto che mi legava al pubblico e al personaggio che in quel momento dovevo recitare.  

Fu la prima volta che qualcuno per la strada mi chiedeva l’autografo e si congratulava con me. Un’esperienza per me molto imbarazzante che avrei voluto andarmene subito a casa a pensare come avrei potuto migliorare le mie interpretazioni. Sono sempre stato una specie di maliardo della scena in cui ho sempre fatto tutto e il contrario di tutto finché non mi sono reso conto che dovevo avere una linea precisa migliorandola sera dopo sera come accadde ai tempi del Teatro Tenda di piazzale Clodio. Determinante fu l’incontro con il drammaturgo Roberto Lerici un grande amico che purtroppo non c’è più e che ancor oggi mi manca tantissimo. Lerici mi diede l’opportunità di misurarmi con me stesso continuando ad esplicare la mia vena comica. Naturalmente c’erano di mezzo i suoi testi e la sua genialità di farmi interpretare brani della Commedia dell’Arte o del teatro francese e inglese dell’Ottocento. Tutti mescolati in un calderone che oggi farebbe paura persino a me riprendere con quello spirito giovanile che si perde nel corso degli anni e che alla fine si trasforma in mestiere. In quel teatro tenda per me confluiva tutto il mondo possibile e immaginabile. Ho ancora il ricordo della gente che si assiepava e che si sedeva come se andasse alla Scala o al Piccolo Teatro e che condivideva con me il ruggito dei leoni. Perché il proprietario del tendone era un vecchio ex-domatore a cui erano rimasti soltanto quattro leoni spelacchiati che circolavano liberamente dentro un’enorme gabbia e che ogni tanto mandavano i loro ruggiti.  

All’inizio ho scoperto di essere tutto meno che bello. In Se permettete parliamo di donne di Ettore Scola (1964) entravo in scena di profilo. Per qualche frazione di secondo sullo schermo si vedeva solo il mio naso: “Sarà il caso di scartare l’idea di essere Romeo”, mi dissi. Non sarei mai diventato il bello del cinema. 

Sul palco c’era una magia che nel cinema, tra una parte e l’altra, mi mancava. A teatro esistono i climi, il rapporto carnale con il pubblico. Tra i miei primi ruoli ci fu un testo di Alberto Moravia intitolato “Il dio Kurt” (1968) che recitai dapprima allo stabile dell’Aquila e subito dopo al Piccolo di Milano con Alida Valli e la regia di Antonio Calenda. Un testo di una drammaticità spaventosa in cui impersonavo un nazista che alla fine si redimeva. Ebbe un grande successo soprattutto tra gli addetti ai lavori. Avremmo potuto replicarlo anche per due stagioni se non fossimo stati incalzati dalle continue richieste di fare qualcosa di più commerciale. Intanto con l’avvento del sessantotto gli editori cominciavano a interessarsi alla drammaturgia. Dalle fumose librerie del centro Europa arrivavano i testi dei grandi autori polacchi che non avevamo mai sentito nominare come Witkiewicz. Io finii per innamorarmene al punto di persuadere i teatri, con cui avevo stabilito una fraterna collaborazione,  di farmene interpretare qualcuno.  

Fu così che scoppiò il caso di “Operetta” di Gombrowicz un testo meraviglioso (1969). Per la mia versatilità venni paragonato a Petrolini. Un attore che non ho mai potuto conoscere ma di cui ho visto alcuni spezzoni cinematografici interessanti. Sembrava un gigante e al tempo stesso un bambino capriccioso che arrampicatosi per caso all’ultimo piano di una gigantesca libreria si divertisse a saccheggiare un testo dopo l’altro.  

Una volta, in Puglia, ai margini della messa in scena de Il dio Kurt del 1969 si presentò anche Moravia, l’autore, per discutere con il pubblico. Alberto era un po’ sordo e Calenda, il regista, si mise accanto a lui per ripetergli le domande. Il pubblico pensò che Calenda gli stesse suggerendo le risposte e scoppiò il finimondo. Insulti e minacce. Moravia non se lo fece dire due volte. Si alzò in piedi, si sfilò la giacca, si arrotolò le maniche della camicia e sfidò la gente: “Allora che dobbiamo fare? Fatevi sotto? Volete litigare?. 

Ad un certo punto venni chiamato da Garinei e Giovannini che di me avevano una grande stima. Avrei dovuto sostituire Domenico Modugno nel musical “Alleluia brava gente” (1970) insieme a Mariangela Melato. Fu una bellissima esperienza ma anche quella transitoria. Perché non volevo prendere il posto dei grandi mattatori della scena del varietà. Il mio varietà era un’altra cosa. La prima in cui fui impegnato, “Forza venite gente” (Alleluja brava gente 1970), di Garinei e Giovannini, servì a me per togliermi un po’ di puzza sotto il naso. Venivo dalla sperimentazione, l’ avanguardia, non ero troppo convinto di essere adatto al Sistina. E, invece, per la mia carriera fu fondamentale. Ho scoperto di avere la possibilità di raggiungere un numero maggiore di persone con un linguaggio diretto e semplice. E’ lì che mi convinsi dell’ importanza della poliedricità dell’attore. E’ necessario essere artisti completi: saper recitare, cantare e ballare, vuol dire avere più strumenti per comunicare con il pubblico. Quando più tardi aprii un laboratorio di recitazione questa fu una regola: chi voleva imparare a diventare un attore doveva imparare ad essere un artista completo. 

Che mestiere faccio ancora non l’ho capito. Sicuramente non faccio l’attore. Sono un attore perché attori non si diventa. O lo si è o non lo si è. Volevo controllare ogni aspetto con tecnica, dizione e ritmo. Nell’ambiente del cinema non mi dicevano mai “Sei bravissimo”, ma solo “Sei troppo bravo”. Una cosa molto diversa. Mi dicevano “Sei troppo tecnico”, “Te manca er core”. Avevano ragione. Per capire che è meglio nascondere le nozioni ci è voluto tempo. Mi sono dato una regolata quando ho scoperto di essermi antipatico. E non ero antipatico solo a me stesso, ero antipatico a un sacco di gente. Quando provai a parlare di teatro popolare mi saltarono al collo. All’inizio degli Anni 70, popolare era una parolaccia e gli spettacoli dell’avanguardia si concludevano sempre con il temibile dibattito. Erano veri e propri interrogatori a sfondo ideologico: “Cosa pensate di aver elaborato a livello politico?”, “Il vostro personaggio sorride ai padroni?”, “State tradendo le lotte operaie?”. Un incubo.  

Nel cinema il regista che ho amato più di altri forse Tinto Brass. Nel suo periodo sperimentale faceva cose folli e meravigliose. Mi chiamò per L’urlo del 1970, non un film sul ’68 ma un film del ’68, e poi per Dropout, con Franco Nero e Vanessa Redgrave. Finimmo in fretta e con i soldi avanzati da Dropout, Tinto ci propose di girare un altro film, Dna. Una serie di quadri che visualizzavano i pensieri di un pazzo. Scene assurde. Vanessa nei panni di una maga Circe che fotografa i maiali, io vestito come il Generale Westmoreland, comandante in capo americano all’epoca del Vietnam, improvvisamente trasformato in convinto comiziante antimilitarista: “Quando vedo uno dei miei ragazzi morire, mi salta addosso una sporca malinconia”. Vorrei aver più tempo per conoscerla meglio, la malinconia. Non credo che ci possa essere sempre il sole, un po’ di pioggia serve. Aiuta a vedere meglio. 

Con Mario Monicelli (1971) feci il film che stroncò la mia carriera cinematografica ( La mortadella). Ero il fidanzato di Sophia Loren, bloccata dalle autorità all’aeroporto di New York per aver tentato di importare illegalmente un salume. Perché stroncai la carriera cinematografica non l’ho mai capito e per anni, del film in questione, non ho nominato neanche il titolo. Non avevo un ruolo da protagonista, ma tutti lo presero per tale. E mi giudicarono duramente. Sul set, Monicelli era un po’ rude. Era abituato a un cinema in cui era più importante comandare che governare. Era determinato e sapeva quello che voleva. Non si proponeva di convincere nessuno. Se aveva un’idea, la metteva in pratica. Una qualità che gli invidiavo. Fuori dal set Cordiale. Passammo insieme venti giorni a New York e ci divertimmo. Giocavamo a fare gli italiani ben vestiti in trasferta americana e al momento di uscire Mario rivendicava il primato: “E tu saresti più elegante di me? Scordatelo”. 

Ricordo con grande piacere la “Tosca” (1973) che feci con Luigi Magni in compagnia di Monica Vitti che era la cantante e di Vittorio Gassman che con l’occhialino seduto in poltrona come se fosse l’imperatore di Roma era il barone Scarpia. Monica Vitti a chi le diceva: “Attenta signora, così rischia di cadere” rispondeva: “Io non cado, mi butto”. 

Carmelo Bene ne La cena delle beffe (1974) ha giocato con la curiosità finché ha potuto. Debuttammo a L’Aquila e lui, freddoloso, si preparò alla trasferta come se l’Abruzzo fosse il Nepal. Si era fatto confezionare da un sarto una pelliccia pesantissima e quando si trattò di indossarla, si accorse che le maniche arrivavano al gomito. Non voleva ammetterlo: “Gigi, a me sembra vada bene, che ne dici?”. E io: “Perfetta, Carmelo, perfetta”. Mentii e non solo perché, se ti cazziava, Bene faceva tremare i muri. Dovevamo partire, non c’era più tempo per rimediare. Insieme abbiamo visto molte albe. E svuotato le cantine di più di un ristorante. Carmelo citava sempre Schopenhauer, ma in realtà attribuiva al filosofo i suoi pensieri. Mi divertivo a smascherarlo: “Dove l’avrebbe detta esattamente il tuo Arthur questa cosa?”. 

Era la fine degli anni ’70 un periodo molto vivace in diversi settori. Quello che proponevamo io e Roberto Lenci, il mio coautore, come anche quello che proponevano Giorgio Gaber e Sandro Luporini, era un teatro di “contaminazione”, dove si mischiava il così detto alto e il così detto basso, usando generi, toni e strumenti espressivi diversi: recitazione e musica soprattutto. La grande differenza era che il teatro-canzone partiva dall’elemento musicale mentre il nostro lavoro aveva come base il teatro. Secondo me è più facile esprimere la contaminazione partendo dalla recitazione. Mescolare tutto: il comico, il tragico, il grottesco, la musica, il mimo, Petrolini, l’Amleto e Gibran, ma lasciare tutto in mano a un unico attore in modo che il messaggio della mescolanza arrivi chiaro. Non importa che il pubblico sappia che si sta facendo Petrolini o Gibran, l’importante è che arrivi un po’ tutto. Era un tentativo per aprire il teatro, “alto” e “basso”, a un pubblico più vasto, farlo uscire dalle cantine. 

I numeri di “A me gli occhi” (1976) dicono che funzionò. Funzionò eccome. Ma per me, il successo di quello spettacolo rimane ancora un mistero nelle sue dimensioni. Io allora ero un po’ conosciuto, ma non certo “famoso” eppure, quello spettacolo che fino ad allora avevano visto solo al teatro di Sulmona, partì con il tutto esaurito la prima sera, al teatro Tenda, che credevo enorme, e così è rimasto “nei secoli”. Si può dire che, con i dovuti aggiornamenti, quella è ancora la base dei miei lavori. E non si stancano. Aldo Fabrizi venne già vecchio, al Teatro Tenda, per A me gli occhi, please. Salì sul palco, mi vide sudato e mi tamponò con un asciugamano. Poi si rivolse al pubblico indicandomi: “Si me trovavo questo quando lavoravo io, me ce rodeva il culo”. Eduardo De Filippo, evento rarissimo, si sedette in platea e poi mi raggiunse nelle roulotte sfasciata nella quale mi rifugiavo: “Ma allora qualcuno continua”, disse solamente. Il complimento più bello che mi abbiano fatto in vita mia. Ho fatto sempre spettacoli per portare in sala chi fino al giorno prima davanti alla sola ipotesi sarebbe fuggito a gambe levate. Il massaggiatore che serio, mentre mi manipolava, mi chiedeva: “Ah Gì, non ho capito, ma che vuordì pleaaase” non me lo sono più dimenticato. 

Gli errori li patisco e li compio, come tutti. Non sono tra quelli che superano lo sbaglio fischiettando. L’errore mi blocca. Mi fa pensare e ripensare. Ma forse in questo atteggiamento si nasconde anche un po’ di autolesionismo. Un po’ di godimento della sofferenza. 

Ho resistito su un palco per più di 50 anni con l’ironia, che in parte è fingere di non sapere, e con l’ambizione. Mio padre voleva che diventassi impiegato statale. “Piove o tira vento, prima o poi lo Stato arriva”. Nonostante lo stress, le delusioni e le occasioni mancate, non avrei potuto percorrere una strada diversa. 

All’attualità preferisco la contemporaneità, e più di tutto amo la leggerezza che − come mi diceva Fellini − è una categoria irraggiungibile. Mi sento un attore leggero. Anni fa, con Roberto Lerici, scrissi uno spettacolo in tema: Leggero leggero (1991). In scena invocavo l’altissimo. Gli chiedevo di darmi la forza di fare uno spettacolo che non significasse nulla. “Signore, preservami dai contenuti, salvami dal significato e fulminami all’istante qualora fossi preso dalla tentazione del messaggio. Tanto io, quando arriva il fulmine, me scanso”. 

Sono molto fiero della scuola per attori che ho tenuto per nove anni al teatro Brancaccio che poi si è trasformata a Villa Borghese nel teatro Globe il “doppio” del famoso teatro shakespeariano dove riprendo i capolavori del Bardo pieni di colpi di scena, di agnizioni e di delitti reinterpretati con spirito eversivo.

Vecchio non sono mai stato. Io non invecchio, al limite divento antico. Un premio per aver promosso Shakespeare tra Italia e Regno Unito me l’hanno consegnato gli inglesi, a Milano, nel palazzo della Borsa, per un teatro che da tredici anni ha sede a Roma. 

La vita inimitabile è una prerogativa di D’Annunzio non mia. 

Gigi Proietti 

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