Socialista senza partito e cristiano senza Chiesa (Ignazio Silone)
SERGIO ZAVOLI: IL SIGNOR TV, INIZIO’ CON LA RADIO
(L’Opinione delle Libertà, Millecanali)
Ci sono pochi uomini di cultura in Italia che possono vantare una produzione di articoli, libri, trasmissioni televisive e radiofoniche così significativa come quella di Sergio Zavoli. Dalle memorie di Bettino Craxi, all’alluvione del Polesine, dal terrorismo a Tangentopoli, dalla nascita della seconda Repubblica alla sua agonia, lo scrittore-giornalista di origine ravennate e riminese di adozione, ha registrato più di sessant’anni della storia, piccola e grande, del nostro Paese.
Sergio Wolmar Zavoli nasce a Ravenna il 21 settembre 1923, trascorre l’infanzia e la giovinezza Rimini, ostile al regime di Mussolini si iscrive alla facoltà di giurisprudenza: “mio padre era direttore di una cooperativa di carrettieri e braccianti che nell’immediato dopoguerra ripuliva le strade di Rimini dalle macerie”, Sergio incontra a Rimini i suoi primi amici fra i quali vi è Federico Fellini.
Come era Rimini nell’immediato dopoguerra, senatore Zavoli?
“Ricordo il 1945, subito dopo la guerra ho capito che eravamo una comunità dal fatto che ritornati dallo sfollamento ciascuno dalla sua esperienza, attraversando la città che era una necropoli, si saltava di voragine in voragine, si inciampava sui ricordi, a volte non si sapeva più neppure se quella era veramente la vecchia strada che portava alla tua casa, era una città distrutta, con un numero inverosimile di case, di edifici distrutti, ed io non posso dimenticare il momento in cui alla solitudine di ciascuno è subentrata un’idea di condivisione e di società, questa idea si è manifestata ai miei occhi tramite un episodio. Vidi arrivare un uomo sporco di bianco di polvere, di calce, con l’abito che portava ancora i segni di questa ricerca dentro queste buche colme di calce e di gesso, che trascinava una porta di casa, e rientrando verso la sua abitazione semidistrutta incontrl un altro signore che aveva la casa accanto alla sua, e vedendolo in qualche modo sorpreso e alla fine invidioso del fatto che lui avesse una porta con la quale poter chiudere finalmente quel tanto che era rimasto della propria casa, si sentì rivolgere questa frase: “senta sono andato in giro, ne ho trovate due, ma ne ho potuto portare solo una, se vuole quell’altra la passo a lei”. Ci si dividevano le porte, per una finestra che veniva offerta a un vicino si riceveva come contropartita un tavolo da cucina, stava nascendo in questa forma primordiale una società, una comunità che si rimetteva insieme scambiandosi gli oggetti che sono proprio gli archetipi delle cose che servono per cominciare a vivere insieme. Poi Rimini è cambiata nel corso degli anni, ma la città si è sempre trasformata, il succedersi di forme del turismo che mutavano radicalmente, le forme di accoglienza, il successo numerico e qualitativo di questa presenza nei nostri occhi e che generavano di volta in volta un modo diverso di produrre ricchezza, e c’era sempre a contatto con le categorie che erano dall’altra parte perchè erano gli albergatori, erano quelli che avevano un capitale da mettere a frutto erano gli uomini della sinistra. Io ricordo i sindaci e gli amministratori locali di quegli anni in cui ricominciava a rinascere l’economia che non venivano a patti ma che si confrontavano con le forze che generavano ricchezza nel paese, che producevano occasioni di lavoro e quindi di benessere e che favorivano un’idea veramente nuova che non aveva niente a che vedere con l’ideologia in senso stretto, ma che badava a costruire una società in grado di soddisfare in termini di generalità, cioè di distribuzione equa del benessere la vita che insieme era destinata a vivere. Abbiamo avuto il turismo dei bambini sulla spiaggia più accogliente e tiepida del mondo, abbiamo avuto poi il turismo al cartoccio, quello della gente che veniva e si portava il mangiare da casa e mangiava sotto l’ombrellone nero con i calzini infilati nelle scarpe, abbiamo avuto i giovani che sono venuti con i sacchi a pelo e hanno buttato per aria le nostre notti, abbiamo avuto la droga, abbiamo avuto l’immagine di una Rimini votata alla trasgressione, abbiamo avuto la Rimini che invece apriva le porte ad una qualità diversa del turismo, insieme abbiamo avuto un’infinità di stagioni, come noi amiamo chiamare i pochi mesi che determinano il benessere della città, e che ogni volta richiedevano una percezione della realtà particolarmente coltivata, generata dal bisogno di istituire quel tanto che si poteva trarre ogni volta dall’unica possibilità che Rimini aveva, per l’appunto la cosidetta stagione balneare. Poi sono arrivate le fiere, i palazzi dello sport, dei congressi, sono arrivate nuove case e quartieri, strade che io non conoscevo, eppure io sono sempre ritornato a Rimini dal mio esilio, sono nate sotto i miei occhi senza che io me ne accorgessi. Rimini è una città mutata, Rimini è in sè una piccola metropoli con delle infinite opportunità di crescita, tutto questo ha per origine l’avvedutezza dei suoi amministratori”.
Torniamo alla Rimini della sua adolescenza e alla sua amicizia con Federico Fellini:
“Io e i miei amici passavamo l’estate a prendere il sole, da giugno a settembre. Ad ottobre arrivavano le prime nebbie, le famose nebbie che raccontava Federico Fellini, venivano a Rimini per inumidire le gole i baritoni e i tenori, la nebbia di Rimini faceva bene alla gola dei cantanti, Federico era straordinario nell’inventarsi delle bubbole di questo tipo… Io ricordo che noi non ci rassegnavamo all’idea di ritornare a rimetterci i vestiti di tutti i giorni per l’inverno, le calze, le scarpe, faceva rabbrividire, strideva proprio, come stride la sabbia. E non di meno gli ultimi turisti che allora erano tedeschi, lo spred allora non c’era…, e li vedevamo che facevano ancora il bagno con le nebbie che passavano, e si vedevano le loro teste che sembravano di affogati più che di bagnanti. Insomma eravamo una compagnia di una vacanza che durava dai primi di maggio all’inizio di ottobre, e quindi eravamo felici, siamo nati in un posto con un’idea che si accordava con un’idea di fumo, di lontananza, il mare, noi riminesi siamo diversi dagli altri, gli altri vivono su cose certe: le colline, le montagne, le pianure, noi siamo vissuti vicino a una cosa che si muove in continuazione giorno e notte, siamo un pò stralunati, è vero, il fellinismo nasce molto da questo. Anche se i riminesi sono straordinari, non amano molto declamare il genio del luogo, Fellini non era amatissimo dai riminesi, anche perchè non tornava spesso a Rimini e non si faceva vedere ogni tanto dalla città che gli aveva dato i natali. E allora la città era un pò risentita, questo figlio che aveva fatto fortuna non si degnava di venire a Rimini se non di notte, andava sotto le finestre dell’avvocato Benzi, tirava un sasso, l’avvocato scendeva, andavano insieme a tirare quattro calci ad un barattolo, poi la mattina Rimini si risvegliava e Federico non c’era più, era già ripartito. La città tornerà a conoscere Federico quando Federico si ammalerà, e fu una cosa bellissima vedere una città che dopo tanti episodi che l’avevano descritta un pochino ingenerosa nei confronti di un genio, Io preparavano dei tranelli per questo povero Federico, gli dicevo: “quando vai a Rimini fai un giretto sul corso, cosa ti costa?, se incontri qualcuno fermati cinque minuti e indugia, chiedigli come sta, dagli la sensazione che tu ti ricordi di lui. E una mattina aveva incontrato un giovane che si chiamava Nin, che si definiva il mago delle luci, perchè era un elettricista mancato che però aveva avuto un’intuizione, quando vedeva i complessini suonare lui preparava il set acustico, preparava il set, metteva due microfoni, un pò di luci, e quindi si riteneva uno come Fellini, uno che ci sapeva fare. Dissero a Federico: guarda che il Nin è uno pensa di essere stato gratificato dalla vita come te o che fa più o meno il tuo mestiere. Federico indulgente disse: “vediamo un pò” e inconrò il Nin, ederico abbozza un sorriso, ciò era già incoraggiante, il Nin si ferma davanti a lui e Federico gli domanda: “come va Nin?”, “come come va?” e per uno così che pensava di fare il mesiere di Federico rispose che andava bene. Fellini stava girando La dolce vita e si parlava di lui in tutto il mondo. Fellini domandò: “ma tu cosa stai facendo in questo momento?” il Nin rispose: “io niente e te?” tanto per ristabilire le distanze… Poi Fellini che sta male, risveglia il sentimento della città che si mise in silenzio ad aspettare che Federico guarisse, ma Federico peggiorava, andava verso il saluto definitivo alla sua città, ti dirò solo la frase finale detta a Rimini da Federico, alla domanda: “che cosa vorresti ancora dalla vita?”, lui con quell’occhiettino che faceva quando sapeva di dire qualcosa fuori registro disse: “innamorarsi ancora una volta”, furono le ultime parole dette a Rimini. Quando io venni a fare l’orazione funebre in piazza Cavour la città era colma di cittadini venuti da lontano e quando la bara di Federico attraversò piazza Cavour si levò una stormo di gabbiani indescrivibile, in realtà erano tanti fazzoletti bianchi che davano l’ultimo saluto a Federico, il feretro poi si fermerà, per una sorta di deferenza, verso il cinema Fulgor, una breve sosta perchè Federico guardasse per l’ultima volta il simulacro della sua grande passione. Questo è uno dei ricordi dei quali parlavo spesso con Federico che mi è rimasto molto impresso e del quale parlavo spesso con Federico prima che si ammalasse. A proposito di Rimini lui mi diceva: “capisco, tu hai ragione, sembrerò una persona insensibile, ma la verità è che io ho talmente sbugiardato il mio amore per Rimini nei miei film, ho lasciato dire che io non posso vivere senza Rimini che io non posso prendere le distanze da questa menzogna di cui io stesso mi vergognavo.”
Nel suo ultimo libro, Il ragazzo che io fui, lei ha descritto una galleria di personaggi fantastici, “felliniani”, riminesi bizzarri, ne vogliamo ricordare qualcuno?
“Inizierei da Silvio (che non è Berlusconi), una delle maschere conosciute da Fellini e delle quali non si parla mai, si vuole che Rimini sia una città che tira al sodo, che parla sempre della stagione in sostanza, che è il punto dell’esistenza, invece Rimini è una città stralunata, piena di creature bizzarre che popolano una città estrosa, che ha sempre accolto con grande simpatia coloro che vaneggiavano un pò per le strade della città, cominciando da Faccino, che era un facchino a cui era venuta in meno l’acca del berretto, e allora tutti lo chiamavano Faccino, frequentava l’osteria Forza e Coraggio dove c’erano i suoi amici che lo conoscevano e che sapevano che non aveva mai una lira in tasca, perchè la moglie tutte le volte che usciva di casa gli metteva nella tasca qualche soldo perchè si potesse comprare un quartino di vino, ma lui esibiva una sorta di fare signoresco assillato dalle pretese di questi figli che ai padri chiedono tutto per cui i padri devono veramente svenarsi per questi figli che non si accontentano mai e che pretendono, esigono. Allora lo lasciavano raccontare di queste sue fantasie meravigliose, delle quali fingeva di essere un pò afflitto ma che in realtà gli davano la sensazione di vivere davvero una vita straordinaria all’osteria, e raccontava di questi ragazzi straordinari, uno che voleva suonare la chitarra e lui che prendeva il libretto degli assegni e ne staccava uno, poi raccontava della figlia che voleva comprare un negozietto di parrucchiera per signora e il padre con l’aria di dire “anche questa ci voleva” tirava nuovamente fuori il libretto degli assegni. Faccino finiva il suo racconto, salutava e congedandosi: “ma dove va queso papà?”
E poi c’era Bigulin che aveva un fare signoresco e che aveva una grande devozione per i nobili e in generale i ricchi, vendeva cravatte. Usava il braccio sinistro come un arto artificiale dove appendeva tutte le cravatte e girava con questo armamentario e quando incontrava il conte Zavaldi gli diceva: “signor Conte, vuole favorire?” e il conte cominciava distrattamente a spulciare finchè credeva di avere trovato la cravatta che andava bene per lui e Bigulin si arrendeva al gusto del conte, e anche se era la peggiore delle cravatte diceva: “che gusto signor Conte”. Poi un giorno dovette sfollare e morì a Coriano in un ospedaletto del luogo avendo accanto anche li, perchè la fortuna lo inseguiva, ma era una vocazione, era normale che accadesse, avendo come vicino di letto un marchese o un barone, gravemente ammalato, che moriva accanto a lui e aveva una doppia fotografia in cui c’era una donna bellissima. bionda, sembrava una di quelle ballerine che venivano a Rimini, c’era poi un barboncino tutto boccoli, dorato, che sembrava il Re Sole. E lui accudiva questo nobile alzandogli una specie di asciugamano che gli copriva le budella quando doveva svolgere qualche operazione intima, e poi lo rimetteva a letto, finchè morì e vide che da un piede da una calza spuntava l’alluce giallino che sembrava d’avorio, allora lui si fece dare da una suora un ago e del filo e gli cuci’ quel rammendo che consentì al nobile di morire con dignità.
Un altro personaggio di cui però non voglio fare il nome era un matto che vaneggiava per la città, faceva il guardamacchine ma non le guardava mai e di notte fu sorpreso dalla Militar Policy che declamava, parlava alla luna, era una specie di poeta pazzo e lo portarono in una piazza dove oggi c’è la Casa del Chirurgo e il monumento ai caduti della prima guerra mondiale, venne sodomizzato da cinque fra polacchi ed inglesi, e lo sodomizzarono vicino al monumento di un caduto per la Patria, senza che lui, perchè vaneggiava si rendesse conto di quanto stava accadendo, e continuando a vaneggiare, declamando al cielo, fu soccorso la mattina e si seppe che aveva subito questa violenza e gli venne garantito che sarebbe stata chiesta una pensione adeguata per il danno che aveva ricevuto. Sta di fatto che ha passato 25 anni ad alzarsi tutte le mattine verso le 9, l’ora del passaggio del postino, per vedere se arrivava una raccomandata dall’Inghilterra, perchè erano stati gli inglesi a fare questo gesto, ma il denaro arrivò mai, non fu mai risarcito e allora ritornò a fare il guardamacchine, ma in realtà era talmente sfinito e demotivato che si addormentava nella parte posteriore dell’automobile dove ci sono due cuscini su cui potersi adagiare, il proprietario della macchina tollerava questa cosa, arrivava, gli metteva un piccolo compenso in tasca, gli faceva cenno di uscire, lui si toglieva il berretto e andava a dormire in un’altra automobile.”
SERGIO ZAVOLI CON ALCUNI COLLEGHI DELLA RAI FRA I QUALI IL MITICO ADONE CARAPEZZI
Torniamo al 1945 quando il giovane Sergio con due amici si inventa il Giornale parlato di pubblicità e informazione, sorta di rivisitazione dell’Araldo Telefonico e Finestre aperte, cronache radiofoniche: “la guerra era da poco terminata, eravamo nel pieno della ricostruzione, Rimini risorgeva, le macerie pian piano scomparivano, io e mi miei amici però ci accorgemmo che mancava qualche altra cosa, c’erano i gesti, c’erano i fatti, ma mancavano le parole, non c’era nulla che parlasse di noi a noi stessi. Non c’era il giornale, non c’era la radio, perchè allora la radio funzionava poco, mancava un momento di condivisione. Io ed altri giovani ci ponemmo il problema di dare a Rimini qualcosa di cui servirsi per ricominciare a parlare di sè stessi. Ci inventammo allora un giornale parlato, di pubblicità, di informazione, che si chiamava Publifono alle 13 e alle 19, era un giornale radio che entrava dalle finestre, realizzato col megafono. Ci servivamo dei primi cavi che ci avevano dato gli alleati, ma il nostro notiziario e le nostre radiocronache non si sentivano in tutta la città, a volte quando c’era il garbino (il vento di Rimini, n.d.a.) ci sentivano solo verso la collina, quando invece c’era la tramontana non si sentiva verso il mare. Era un giornale che entrava dalle finestre, era un giornale che valeva la pena di ascoltare, perchè era una novità. Da Ravenna io feci la radiocronaca dal primo derby Ravenna-Rimini, ricordo la formazione del Rimini di allora: Ghezzi, Pinatti, Bettoli, Bomardieri, Mantovani, Davalbia, Tramontana, Massari.”
Senatore Zavoli, tramite Finestre aperte facevate entrare nelle case dei riminesi la voce della città, il vostro era quindi un notiziario che riportava la vita nelle case, oggi invece siamo connessi con il mondo attraverso internet, telefoni, ecc. ma forse mai come oggi le nostre finestre si sono chiuse alla realtà, dobbiamo tornare al passato? Dobbiamo riaprire le finestre?
“Certo, bisogna tornare al nostro passato, ma non per riviverlo nelle forme che assunse allora, quando era il presente di allora. Le cose passate e sono destinate a non tornare e guai se non fosse così, ma perdere la memoria sarebbe grave, diceva il grande scrittore Borges: “perdere la memoria equivale ad avviarsi verso una sorta di amnesia finale in cui non ci si ricorda più chi siamo stati, da dove veniamo, che genitori abbiamo avuto, che scelte abbiamo fatto, che rifiuti abbiamo avuto, come si è svolta la nostra vita, passati come sonnambuli, dentro ad un’esistenza che non lascia traccia di noi.”
Nel 1947 Sergio Zavoli abbandona la facoltà di giurisprudenza per trasferirsi a Roma: “Un giorno un ingegnere veneziano della Rai che passava per caso per Rimini telefonò a Vittorio Veltroni, allora capo della redazione radiocronache della Rai e gli disse: “A Rimini c’è un giovane studente che secondo me ha delle qualità per fare delle radiocronache”, dopo un paio di settimane ero a Roma e mi affidarono la radiocronaca dal Flaminio di Roma-Fiorentina, vinse le Roma 3 a 2. Io che ero abituato a Rimini a trasmettere per sei o sette persone (mio padre, mia madre, gli amici del porto) non pensavo che in quel momento ero ascoltato da milioni di persone e pensavo di trasmettere sempre per sei o sette persone.”
Dopo avere fatto diverse radiocronache, Zavoli inizia a lavorare al Giornale Radio diretto da Antonio Piccone Stella, esordisce con un reportage dall’Africa centrale, poi fa diversi commenti sportivi: la radiocronaca ciclistica che resterà uno dei suoi punti di forza si in radio che in tv. Nel 1951 effettua la radiocronaca dell’alluvione in Polesine e realizza il documentario radiofonico Inchiesta in Occidente con la quale vince il Microfono d’Argento, nel 1952 realizza con Enzo Biagi Questa sera si recita a soggetto, trasmissione radiofonica incentrata su vecchi attori ospiti di una casa di riposo. Altri documentari radiofonici di questo periodo sono Scartamento ridotto e Notturno a Cnosso, con il quale si aggiudica il Premio Italia nel 1954.
Zavoli si dedica al documentario radiofonico per tutti gli anni ’50, lavorando fra gli altri con Enzo Biagi, Luca Di Schiena ed Antonello Marescalchi: QUESTA SERA SI VIVE A SOGGETTO (1952) con Enzo Biagi, trasmissione nella quale intervista vecchi attori ospiti di una casa di riposo; NOTTURNO A CNOSSO (1953); TI VEDO PERCHE’ TI PENSO, resoconto di una giornata trascorsa in un Istituto per ciechi (1955); SABBIA VERDE documentario radiofonico nel corso del quale raccoglie le voci degli emigrati in Libia nel 1939 (1956); SCARTAMENTO RIDOTTO; BUDAPEST: ORA ZERO PER IL MONDO sui profughi ungheresi (1957), CLAUSURA documentario inchiesta sulle monache di clausura che avrà anche una versione televisiva che viene prodotta in sei lingue (1958), RIASCOLTIAMO LA NOSTRA STORIA (programma dedicato ai 35 anni della radio italiana, 1959).
Chiamato da Enzo Biagi in televisione in pianta stabile, all’inizio degli anni ’60 passa in tv con PROCESSO ALLA TAPPA, Zavoli ha il pregio di spiegare il ciclismo e di farlo commentare ad intellettuali del calibro di Pier Paolo Pasolini, Alberto Moravia, e a giornalisti come Enzo Biagi ed Indro Montanelli. PROCESSO ALLA TAPPA parte con il Giro d’Italia del 1962, il programma con la sua immediatezza conquista un pubblico quasi pari a quello di LASCIA O RADDOPPIA. Alla fine di ogni tappa intervista gli eroi delle due ruote, ma anche i gregari, gli ultimi in classifica e tutti i personaggi minori che fanno l’avvenimento sportivo, e che nessuno, prima di Zavoli, aveva pensato di intervistare, il programma durerà dal 1962 al 1969. Zavoli intanto lavora anche per servizi speciali come La guerra d’Algeria (1962), la telecronaca della tragedia del Vajont (intervista gli scampati che raccontano, si lamentano, protestano e denunciano la prevedibilità dell’accaduto), e raggiunge la maturità professionale firmando servizi per le rubriche giornalistiche TV7, A-Z un fatto come e perché, Controcampo, Incontri. Cronista per eccellenza Zavoli svolge il suo lavoro senza cercare gli indici di ascolto, nel 1967 Zavoli è il primo giornalista a fare entrare la televisione all’interno di un manicomio italiano e ad intervistare Franco Basagiia nel documentario I GIARDINI DI ABELE, i gesti di liberazione ripresi da Zavoli rappresentano l’avvenimento iniziale da cui partirà la storia che porterà alla rivoluzione dell’assistenza psichiatrica segnata undici anni dopo dalla legge 180.
Nel 1969 Sergio Zavoli viene nominato condirettore del Tg1 per i servizi speciali e le rubriche, nel 1970 propone UN CODICE DA RIFARE programma che presenta il Codice Rocco, il 1972 è l’anno di NASCITA DI UNA DITTATURA (1972) realizzato in occasione del cinquantennale della marcia su Roma, programma che ha molti riconoscimenti fra cui il Telegatto di TV SORRISI E CANZONI, direttore e conduttore dell’edizione delle 13 del Tg, nel 1976, con la riforma della Rai, Sergio Zavoli passa a dirigere il Gr1 che caratterizza per il taglio progressista e per le edizioni lunghe e ricche di approfondimenti. La sua è una carriera aziendale, nel 1980 Sergio Zavoli viene nominato su indicazione del Psi di Bettino Craxi, Presidente della Rai. Altro che lottizzazione quella dei socialisti della prima Repubblica, erano nomine di alta qualità, Zavoli non ha mai nascosto le sue simpatie per i socialisti ma non ha mai avuto alcun ruolo nel partito. Quando penso alla seconda Repubblica che lottizza nani e ballerine (quelli veri)l, grigi burocratici figli del Pcus, cattocomunisti cattolici sposati che si portano a letto le attrici, mi tremano le vene i polsi, loro, i falsi moralizzatori.
Sergio Zavoli è riuscito a gestire l’Ente radiotelevisivo di Stato dal 1980 al 1986, nel momento più difficile per la Rai che deve subire la concorrenza dei network privati, sotto la sua direzione la Rai produce e presenta una programmazione di altissima qualità: dai grandi serial come Verdi, Marco Polo, Cuore, e Cristoforo Colombo, al cinema d’autore produce fra l’altro E LA NAVE VA di Federico Fellini), ad inchieste e rubriche dedicate al sociale e alla collettività, nonchè programmi culturali come, ad esempio, PAROLA MIA condotto da Luciano Rispoli, non dimenticando nemmeno l’intrattenimento (tanto per fare un esempio QUELLI DELLA NOTTE di Renzo Arbore).
Dalla seconda metà degli anni ’80 Zavoli è tornato in video come conduttore delle inchieste-dibattito Viaggio intorno all’uomo (1987), La notte della Repubblica (1989), Nostra padrona televisione (1994), Credere o non credere (1995), Viaggio nel Sud, Viaggio nella giustizia (1996), C’era una volta la prima Repubblica (1998), Viaggio intorno alla parola (2001), in cui ha affrontato temi di gran peso socio-politico con accuratezza di indagine, ma con lo stile calligrafico e piuttosto accademico che è proprio del suo giornalismo. Zavoli ha realizzato numerosi programmi di successo premiati da prestigiosi riconoscimenti sia in Italia che all’estero, ma, a differenza di altri “giornalisti” della seconda Repubblica che si fanno scrivere un libro da altri, ha pubblicato moltissimi libri scritti da lui. Fra i libri scritti da Sergio Zavoli ricordiamo: Socialista di Dio (1981, Premio Bancarella), Romanza (1987), Di questo passo: cinquecento domande per capire dove andiamo (Rai, Eri, 1993), Un cauto guardare (Mondadori, 1995, Premio Alfonso Gatto e premio Giovanni Boccaccio), La notte della Repubblica (Mondadori, 1995), Viva l’Itaglia (1995), Credere non credere (1996), La trasparenza del mattino (1996), Rimetti a noi i nostri dubbi. Dalla cometa alla bussola spaziale una lanterna continua a far luce sui nostri passi (Sei, 1996),Ma quale giustizia (1997), I volti della mente (scritto con Enrico Smeraldi, edito da Marsilio nel 1997), La lunga vita (Mondaori, con la collaborazione di Mariella Crocella, 1998), Dossier cancro (1999), C’era una volta la Prima Repubblica (1999), In parole strette (Mondadori, 1999), La lunga vita. Viaggio nella salute (Mondadori, 1999), I giorni del grande fiume. Il paese nell’alluvione del Po novembre 1951 (Minerva Edizioni, Bologna, 2001), Se Dio c’è. Le grandi domande (Mondadori, 2001), Parole strette (Mondadori, 2000), Diario di un cronista. Lungo viaggio nella memoria(2002). Il dolore inutile. La pena in più del malato (2005), La questione. Eclissi di Dio e della storia (2007). Sergio Zavoli ha inoltre curato la prefazione del volume di Aldo Forbice su Ignazio Silone. Con Giancarlo Mazzucca ha curato il volume Provincia di Forlì, Cesena, Romagna, dal mare all’Appennino. Italia turistica.
Dal 1991 Sergio Zavoli ha diretto Tele San Marino, dal 1993 al 1994, ha diretto IL MATTINO di Napoli, è stato inoltre consigliere di amministrazione dell’Enciclopedia Treccani, Zavoli è stato l’unico giornalista al mondo ad avere vinto per due volte ad avere vinto il Prix Italia. Nel 2001 la Rai decide di mandare in onda DIARIO DI UN CRONISTA, una raccolta delle migliori inchieste di Sergio Zavoli in 55 puntate, che dovrebbero andare in onda in prima serata, ma, a causa della deficienza di buona parte del pubblico italiano, e dell’incompetenza di qualche burocrate o consigliere di amministrazione della Rai, DIARIO DI UN CRONISTA andrà in onda di notte. Diario di un cronista, andato in onda anche su RaiEucational e prodotto in dvd, ci ha fatto comprendere meglio l’evoluzione della nostra società e del giornalismo. Meticoloso e coinvolgente (tanto da meritarsi l’etichetta di “commosso viaggiatore”), attento alle conseguenze storiche e sociali degli eventi, Zavoli è riuscito a rendere al documentario il suo intrinseco valore di testimonianza viva e intensa, facendo scuola per intere generazioni di giornalisti in radio e in tv. Molte sono le altre inchieste giornalistiche realizzate da Sergio Zavoli nel corso della sua lunga carriera, ricordarle tutte è impossibile, ci limitiamo pertanto ad aggiungere i vari “viaggi” VIAGGIO NEL SUD, VIAGGIO NELLA GIUSTIZIA e VIAGGIO NELLA SCUOLA. Nel 2001 Sergio Zavoli si candida al Senato come indipendente nelle liste dei Ds, eletto Senatore si ripresenta nel 2006 e viene riconfermato, è attualmente deputato del Pd. Uomo di sinistra, socialista di Dio, come recita il titolo di un suo libro, senza la faziosità e l’inquadramento dei comunisti, ma, soprattutto, Presidente della Rai, uno dei pochi con un indiscutibile curriculum professionale. Dopo di lui alla Presidenza della Rai ci sono stati, nel corso degli anni, Enrico Manca, Walter Pedullà, Claudio De Mattè, Letizia Moratti, Giuseppe Morello, Vincenzo Siciliano, Roberto Zaccaria, Antonio Baldassarre, Lucia Annunziata, Claudio Petruccioli, Illustri Carneadi, comunisti faziosi (nominati dalla sinistra e dallo stesso Berlusconi), ottimi manager ma senza la caratura giornalistica di Zavoli, cattocomunisti sposati che predicano la moralità ed hanno amanti, ecco chi ci ha proposto la seconda Repubblica come Presidente della Rai. Nessuno ha pensato di ricandidare Zavoli Presidente, Sergio Zavoli che oggi è fra i pochissimi uomini di sinistra, veramente di sinistra e senza il livore e l’integralismo giustizialista. Zavoli anche come giornalista, pur essendo di sinistra, è sempre riuscito ad essere obiettivo, non ha mai avuto la faziosità di Giovanni Floris e di Michele Santoro.
Il 26 marzo 2007 la facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma Tor Vergata gli conferisce la laurea specialistica honoris causa in editoria, comunicazione multimediale e giornalismo, per lo “straordinario contributo apportato alla causa del giornalismo italiano”. Nel 2008 Zavoli viene riletto nelle fila del Pd, nel 2009 è eletto Presidente della Commissione di Vigilanza della Rai. Zavoli ha ricevuto importantissimi riconoscimenti nazionali e stranieri, fra i quali due Prix Italia, e i Premi Marconi, Montanelli, Saint Vincent. Ha vinto inoltre il Premio Bancarella, il Premio Viareggio, il Premio Basilicata, l’Università di Urbino gli ha conferito la laurea ad honorem in lettere. Senatore della Repubblica da tre legislatura, Zavoli fa parte della Commissione che sovraintende alla Biblioteca e l’Archivio Storico di Palazzo Madama.
Nel 2011 ha pubblicato Il ragazzo che io fui, “(il libro) è in fondo il tentativo di capire ciò che la memoria, dalla più lontana alla più incombente può lasciare a un bambino che pare avviato, come fu per me alla sua età, a diventare scriventista, una parola salvata a lungo, in silenzio, dall’immaginazione innocente di mia madre”. Giornalista, scrittore e poeta, ha partecipato in varie forme alla vita civile e culturale del Paese.
Ritrovo il Senatore Zavoli in una serata riminese di luglio mentre la città è assediata di turisti, soprattutto russi, mentre l’Italia è alle prese con una crisi economica senza precedenti nella sua storia repubblicana, come giudica il momento difficile che sta attraversando il nostro Paese? Possiamo uscirne? Quale messaggio lanciamo alle nuove generazioni?
“Il mio rapporto con Rimini è essenziale avendo speso in questa città una parte della mia esistenza e contando di rimanervi ancora per un certo numero di anni, anche se per la verità, avendo 88 anni, sono consapevole che per bene che vada andrà sempre peggio. E infatti stasera è bastata un pò di umidità e la voce mi si è abbassata, per cui non sono in grado di cantare e dovrai accontentarti di quello che ti dirò. La tua domanda è drammatica e suscita inquietudine per quel che ci circonda. Io ti giro la domanda e ti chiedo: quale spavento proveremo oggi se non fosse intervenuto attraverso un’illuminazione molto lucida, molto responsabile, molto rischiosa il nostro Presidente della Repubblica di favorire la costituzione di un governo difficile che non ha storicamente grande reputazione, non solo nella storia del nostro Paese, i governi dei tecnici sono governi destinati ad avere vita breve e quasi sempre non lasciano traccia benefica della loro azione. E tuttavia proviamo a chiederci che spaventevole scenario avremo di fronte agli occhi e dovremo vivere praticamente giorno per giorno, ora per ora, se non fosse intervenuto questo fattore di tentativo di rimettere in onore la credibilità del nostro Paese, per farlo uscire dall’affabulazione che ci ha descritto come un popolo molto felice che aveva risolto i suoi problemi essenziali portando ad esempio di questa presunta felicità il fatto che bastava guardarsi attorno per vedere i ristoranti pieni di gente e quindi tutti felici e contenti di vivere anche in un tempo difficile ma dal quale saremo usciti per primi e senza gravi danni. Cioè stavamo scivolando verso l’abisso da dove sarebbe stato molto difficile risalire se non fosse intervenuto tutto quello che oggi a buon ragione ci inquieta. Mario Monti stesso lo dichiara riferendosi, seppur non citandolo, all’ottimismo che Kennedy, quando diceva “io sono un ottimista senza illusioni”, lo stesso Monti ci avverte che saranno tempi duri e in tutte le situazioni molto drammatiche e difficili della storia contemporanea sono cominciate con delle frasi che non annunciavano certamente la felicità. Mi viene sempre in mente la frase di Churcill all’inizio di una guerra che sarebbe costata 52 milioni di morti, quando, dando il via alla partecipazione dell’Inghilterra, questo tentativo di fermare il nazismo promise al suo popolo lacrime e sangue. Noi non ci aspettiamo nè le lacrime nè il sangue, è già difficile sopportare la pena quotidiana del dover fare tornare i famosi conti del pranzo e della cena e siamo ancora gente fortunata se riusciamo ancora a fare questi conti e in qualche modo a farli tornare, perchè c’è una parte del nostro paese che deve addirittura abolire uno dei due pasti, o quello dopo mezzogiorno, o quello della sera. Tanto più che i giovani che sono quelli che avrebbero più diritto a vivere in una democrazia compiuta che garantisca la sviluppo di una generazione che non ha fatto niente per meritarsi questo disastro, vive una delle stagioni peggiori che sia mai stata toccata ad una generazione giovanile. Per la prima volta nella storia del nostro Paese una generazione di giovani soffre più di quanto abbia sofferto la generazione che l’ha generata, cioè quella dei padri, delle madri. L’irrilevanza sociale in cui versa la gioventù oggi è il sintomo più grave della situazione che noi stiamo vivendo, se è vero come è vero che un uomo, e figuriamoci un popolo, è tale per il suo avvenire io mi chiedo quali speranze può nutrire una generazione di giovani che si vedono addirittura bollati dall’ironia di uno pseudo ministro, e con pseudo ministro mi riferisco anche alla stazza fisica, che ha avuto l’ardire di chiamare bamboccioni i ragazzi che si dovevano in qualche modo adattare all’idea di rimanere in famiglia, di pesare sul bilancio famigliare, semplicemente perchè fuori non avevano come sostentarsi e diventare un soggetto che non aveva le condizioni per essere credibile. La politica è uscirne insieme, bisogna credere nella politica, perchè non c’è mai tanto bisogno di politica come quando è la politica stessa a voltare le spalle. Io credo che tutti noi insieme dobbiamo piegarci all’idea di restringere la cinta e di realizzare quella sorta di civiltà della memoria che fu in qualche modo ipotizzata da un grande antropologo il quale negli anni ’70 disse che la vita che conduceva l’occidente era sbagliata, io scrivevo un libro intitolato In nome del figlio e riprendendo la tesi del sociologo che diceva “si vive sulla base di uno scialo dissennato che non tiene conto delle difficoltà verso le quali andremo incontro”, ed avvertivo il pericolo di una civiltà che fonda tutto sul consumo e che quindi crea un’economia artificiale. Il sociologo faceva un esempio, semplice famigliare a tutti, degli oggetti che noi compravamo che nascevano già consumati: un frigorifero, un’automobile, un elettrodomestico, che dovevano durare qualche mese, qualche anno, e non doveva superare quella data perchè altrimenti non sarebbe stato possibile tenere in vita il cosidetto mercato, bisognava rifiutare l’oggetto che andava consumandosi per incalzare subito la sua presenza con un altro oggetto che aveva tutti i caratteri per essere migliorativo rispetto a quello precedente, e così di passo in passo spendendo e al tempo stesso non costruendo le basi per un’economia stabile fondata da quel disastro che è stato in definitiva l’accumulo di questo debito pubblico che pesa ancora sulla nostra schiena come inimmaginabile, come era inimmaginabile pensare allora. Quella profezia mi fece pensare ai profeti disarmati di cui parla Machiavelli il quale dice subito però “i quali hanno per destino quello di ruinare”, ora noi non stiamo veramente ruinando, per fortuna, la ruina è un’altra, la rovina è l’idea che non ci sia più niente da fare, che tutto si svolga al di fuori di noi, sena di noi, persino contro di noi, che la politica non sia più nella condizione di risolvere il problema di governare una situazione difficile, che i partiti siano l’espressione di un’accolita maggioranza, che si mettano d’accordo per esercitare ciascuno una volontà di sviluppare un progetto e di ricavarne per sè stessi soltanto il massimo del profitto. Ecco tutto questo dileggio di giochi deleteri insieme ha portato in un momento di gravi difficoltà come quelli che stiamo vivendo a credere che non vi sia più nulla da sperare. Questo disincato, questa forma di disperazione e di resa sta producendo dei frutti che sono di gran lunga peggiori delle forme che sta assumendo la crisi nei suoi connotati reali e quindi pratici. E’ molto più pericoloso il disincanto di coloro che non credono più che tutto ciò che va fatto è da farsi ed è possibile farlo perchè si arrendono all’idea che non vi sia niente più da volere, da desiderare, perchè non ci sono più le condizioni per arrivare a nessun risultato che non sia una catastrofe generale, una specie di palingenesi, un’apocalisse che rimetta in discussione tutto ricominciando tutto da capo, azzerendo la vita, i sacrifici, i sudori di intere generazioni perchè la dissennatezza di chi non ha saputo fare conto del privilegio che via via era andato accumulando cercando soltanto la convenienza personale e dimenticando gli interessi di carattere generale. La politica diceva Don Milani è uscirne insieme, quello che è pericoloso è che i nostri giovani cominciano a sentire, con molta fondatezza, purtroppo, che il loro posto nella società è diventato del tutto irrilevante e che non c’è nulla che possa promettere loro che le cose cambieranno presto e in termini veramente significativi. Io penso al caso di un giovane partigiano liberale che fu sorpreso da un drappello nazista che dopo il crollo della linea gotica di fronte alle armate della Wermacht che scendevano già verso la Pianura Padana nel tentativo di guadagnare la Alpi e di calare verso i propri Paesi, tenevano a bada le vie d’uscita e svolgevano operazioni soltanto di polizia ormai, non erano più operazioni militare. Questo giovane fu sorpreso a distribuire del materiale inneggiante alla libertà e fu sorpreso ad assumere degli atteggiamenti anche di spavalda provocazione nei confronti di questi militari che il giovane giudicava ormai sconfitti dalla storia stessa della loro ideologia dissennata. Fu naturalmente fermato e. come direbbe un cronista di giudiziaria, assegnato al carcere mandamentale della sua città. Sarà fucilata una mattina all’alba, il ragazzo che aveva ancora 18 anni e cadde in una pozza di sangue, il cronista del giornale locale arriva al puntiglio di di raccontare persino che gli uccelli che dormivano. Questo ragazzo la sera prima aveva scritto una lettera ai genitori i quali non erano stati propriamente dei fascisti, non avevano nè parteggiato nè disapprovato, nè mai si erano mostrati ostili al regime semplicemente non ne volevano sapere, perchè giudicavano, come spesso accade oggi, che la politica è una cosa sporca che profitto. Questo giovane cominciava la sua lettera scrivendo: “ricordatevi che la cosa pubblica riguarda noi stessi, non separatevi dalle cose che riguardano tutti. Il giorno in cui voi non farete più parte di una comunità sareste soli e disperati, non potreste cavarvela se non attingendo a delle fortune personali che non toccano se non a qualche privilegiato. E adesso che sapete che io domani mattina sarò ucciso non dite di essere rassegnati, di non volerne più sapere, pensato che tutto è successo perchè voi ai tempi vostri non avete più voluto sapere. Dico questo perchè questa è una metafora che secondo me calza molto bene con i tempi che stiamo vivendo pur essendo così clamorosamente distanti dalle ragioni storiche che li hanno motivati e alimentati, ma che si riferiscono ad un certo clima di disaffezione e di distacco, del non volerne sapere, di non doversi sporcare le mani. Continuiamo a fare politica, continuiamo a credere che c’è una politica che ha in sè i propri germi, ed è l’unica possibilità di rinascita, perchè non ci sarà un governo di tecnici o di politici che possa sostiuire la volontà di un popolo, guai se si seminasse nella nostra comunità nazionale l’idea che non c’è più niente da fare. L’ha detto anche il presidente del Consiglio Mario Monti. Ho avuto pochi giorni fa un incontro con il presidente Monti il quale nella riservatezza, nell’intimità, nella famigliarità, ha un aspetto e delle tonalità, anche nel parlare, del tutto diverse da quelle che sono così evidenti nel suo dire, e cioè un fare un pò autoritario, caustico, rapido, apodittico, una verità disegnata e quasi scolpita dalle poche parole che usa. Con me era in una situazione di relax, si parlava della Rai, lui prendeva degli appunti, io gli raccontavo la mia esperienza, e quando gli facevo il discorso sulla politica in qualche modo giustificando il mio popolo, cioè quello della mia politica, che manifestava dei segni di insofferenza per la mancanza di una qualità fondamentale in cui poter credere che il sentimento dell’equità, perchè noi non cerchiamo ciascuno per sè ma qualcosa per tutti, il fatto per esempio che non si sia ricorsi ad una patrimoniale che non avrebbe arrecato danni a chi aveva anche troppo e che avrebbe restituito un minimo di sicurezza a chi non aveva quasi nulla, sarebbe stato un motivo serio per riacquistare quella fiducia di cui il Paese aveva bisogno per continuare a credere con qualche fondatezza a quello che stava succedendo. Lui ha avuto la bontà di dirmi che io avevo l’arte di dire delle cose molto dure con un fare così quieto, tranquillo, che in qualche modo indulgeva ad una sorta di bonarietà e di condivisione. Ci siamo salutati con l’idea che un governo di tecnici di per sè assumeva delle responsabilità che andavano oltre ad un governo solo di politici. Quale è lo scenario che ci si presenta davanti allora? Io non sono un politologo di professione, ho acquisito facendo il giornalista una certa sensibilità per mettermi in sintonia con quello che accade, non fosse altro perchè un giornalista è dopotutto un mediatore fra i fatti e l’opinione pubblica e quindi ha il dovere di capire, di decifrare la realtà se ha la pretesa di poterla raccontare. E quindi intuivo le ragioni per le quali un governo tecnico si trovava di fronte ad un muro di obiezioni di fronte alla necessità di stringere la cinghia con quella violenza con cui si era presentato. Tuttavia dovevo convenire che se questo non fosse accaduto le cose sarebbero precipitate in una situazione di fronte alla quale quella greca sarebbe risultata una specie Bengodi, di Paradiso terrestre. L’Italia era la chiave della situazione che andava in qualche modo a configurare una situazione di carattere continentale, non a caso Obama ha detto che Monti è per lui la garanzia di una stablità che dovrà cominciare dall’Italia e diffondersi equamente in tutta l’Europa. Se questo è vero allora le tre ipotesi che si possono fare e che già danno un segno di potere in qualche modo occupare lo scenario del momento sono: le elezioni anticipate per la mera soddisfazione di prendersi subito una rivalsa su un governo che non è accettabile dalla politica quella politicante, cioè quella militante nel senso deteriore del termine, e quindi gli interessi in qualche modo inconfessabili di quella parte del Paese che lavora trasversalmente contro il tentativo della stragrande parte del popolo che fa sacrifici enormi per uscire da questo travaglio. La seconda: istituire una sorta di contaminazione, cioè un governo di esperti e di politici che si mettono insieme in una coalizione possibile, da immaginare, da costruire, con tutte le difficoltà che comporta il tenere insieme due categorie che non stanno insieme per un principio scritto e che sono il frutto della causualità della storia, del momento in cui si viene a vivere. Terzo l’ipotesi di arrivare al 2013, disfarsi del disfattismo nazionale del governo Monti e avviare subito un altro governo che fa giustizia di tutte le iniquità richieste al popolo italiano, senza dire naturalmente chi sarebbe stato in grado di mettere insieme una maggioranza che corrispondesse ad interessi per i quali gli esperti che pur non avevano legami personali da dover difendere erano riusciti in qualche modo a mettere insieme. Il governo Monti, non dimentichiamolo, è il frutto di una coalizione che forma una maggioranza democratica. E allora di fronte all’ipotesi di un governo politico che non ha più le garanzie che offre un governo tecnico che sa dove mettere le mani, che tenta di ricostruire una situazione di equilibrio in una società politica che non è fatta più per stare insieme perchè disturbata da mille tentazioni, a cominciare da quella di Berlusconi di tornare in campo, che viene a sommuovere in qualche misura lo scenario che si poteva prefigurare, quando ipotizzando, secondo me ragionevolmente, che il Partito Democratico possa vincere le elezioni ci immaginavamo che un governo governato da un Presidente del Partito Democratico con un’opposzione che sulla base di una legge riveduta e corretta avrebbe potuto ristabilire quel metodo democratico di tenere viva la possibilità di un’alternanza credibile, in grado di correggere le frustrazioni e le prevaricazioni. Io ho qualche occasione di frequentare il Presidente della Repubblica per le ragioni del mio incarico, ed io sento cosa significa quella tensione che non sfocia mai nel sentimento del rischio, perchè la responsabilità implica che ci si debba fermare di fronte al pericolo, che è un bene che non si riesce a portare fino in fondo, che poi dà luogo a una delusione peggiore del male che si è a lungo sopportato. Napolitano ha percepito nel modo secondo me più chiaro la necessità che ci si arrivi a tener duro fino al 2013, dopo di che il governo dei tecnici avrà fatto la sua parte ed avremo nel frattempo la possibilità dopo una sosta di qualche mese per assestare il nuovo ordine da costituire, si possa veramente dare vita ad un governo ritornato tout court alla politica. Sant’Agostino diceva una cosa molto bella a proposito degli stati d’animo che si possono formare, a livello singolo e collettivo, diceva “da due pericoli occorre ugualmente guardarsi: dalla disperazione senza scampo, ma anche dalla speranza senza fondamento. La speranza non può essere qualcosa arcana, astratta, che vive lontano da noi, alla quale facciamo capo tutte le volte che ci sembri non avere le forze sufficienti per arrivare a conquistare ciò che ci serve e affidiamo quindi a questa categoria incommensurabile e in qualche modo ineffabile che dovrebbe risolvere le cose che noi con le nostre azioni, dentro alla nostra storia non riusciamo ad ottenere. La speranza deve essere agire, fare, cioè prendere la speranza e metterla nella storia, e farla agire nella nostra storia. Io sono così, credo che si possa tentare di dare una sommaria risposta alla complessa domanda che mi è stata posta.”
Come giudica l’evolversi della Rai dai suoi tempi ad oggi?
“Ha lavorato tantissimi anni in Rai come giornalista, sono stato per sei anni presidente dell’azienda, oggi sono presidente di garanzia, della commissione di vigilanza della Rai dove vi sono 40 fra deputati e senatori, in questi giorni di cambiamento ho incontrato tutti, il primo giorno in cui diressi un consiglio di amministrazione nelle mie nuove vesti di presidente della Rai io mi sentii dire se non ritenessi che non fosse venuto il momento di privatizzare la Rai dal momento che era apparso sul mercato e Silvio Berlusconi, allora Fininvest, che si poneva come un’alternativa pericolosa per la vita della Rai la quale avrebbe dovuto sacrificare molte delle sue peculiarità dovute al fatto che riceveva un canone e quindi la qualità del suo prodotto doveva essere di gran lunga superiore a quella di qualunque altro network italiano o straniero. Allora io dissi: voi state demonizzando il mercato, la parola mercato di per sè non infame, il mercato tiene vivo il sistema della comunicazione economica e quindi delle possibilità di far crescere lo sviluppo, la partecipazione, la crescita delle opportunità che si presentano agli uomini, e quindi non se ne può fare a meno perchè altrimenti rimarremo delle entità che si basano continuamente sulle proprie riserve destinate a rimanere riserve anguste, è importante entrare nel mercato e confrontarsi, ma confrontarsi vuol dire distinguersi, non appiattirsi sul modello della concorrenza. Quella volta la Rai ha perduto la grande occasione di difendersi, è cominciata lentamente in modo impercettibile la decadenza del servizio pubblico in quanto prodotto di una televisione di qualità che giustificasse oltretutto il canone. L’omologazione aveva fatto della Rai una televisione qualunque, i suoi conti non andavano bene, venivano denunciati dei conti che non corrispondevano esattamente alla reale entità dei deficit, si possono appostare in mille modi i bilanci, chi ha dimestichezza con queste parole capisce bene che cosa voglio dire. Sta di fatto che occorreva invertire due rotte: la dipendenza della Rai dai partiti i quali erano diventati i padroni della Rai in quanto collocavano in tutti i gangli vitali dell’azienda le persone che dovevano rappresentare il referente fiduciario che doveva saper tutelare gli interessi del singolo e del partito che rappresentava, togliendo quindi qualunque indipendenza allo spirito di una grande azienda incaricata di contribuire al processo culturale e civile del Paese, quindi la novità era costituita dal fatto che con la nuova governance finiva di fatto il dominio dei partiti sulla Rai. Arrivavano persone che con i partiti non avevano più nulla a che fare, ma che avevano molto a che fare con i bilanci, quindi presidente e direttore generale sono due personalità che vanno in quel posto per risanare l’azienda. Poi si doveva avviare la seconda fase in cui una direzione editoriale diversa dovrà preoccuparsi della ritrovata gradibilità del bilancio per ottenere dal mercato le forze per incrementare la qualità del prodotto e ritornare ad essere quel servizio pubblico che era stato una volta. Faccio un esempio: dopo essere servizio pubblico, la mancanza di pluralismo cioè l’assenza di questa o quella voce, oppure la presenza di tutte le voci ma tutte così faziose da fare del pluralismo una sorta di faziosità, questa non è la regola democratica, voleva dire rompere con un’altra tradizione che era quella di doversi occupare soltanto degli interessi dei grandi o piccoli o medi gruppi che partecipavano alla vita dell’azienda dall’esterno soltanto per rilevare profitti, quindi dovendo giocare sul risparmio e quindi sul deterioramento della qualità dei prodotti, la dispersione dei mezzi proprio per l’affidamento a forze esterne delle possibilità di realizzare le varie fiction, le varie serie, con un dispendio che non ci sarebbe stato se tutto fosse stato attivato e realizzato all’interno dell’azienda. Fra l’altro un cospicuo numero di personale che rimaneva senza lavoro per il fatto delle commesse avviate all’esterno. Poi non potevamo più darci un intrattenimento perchè ormai ci si giovava ormai soltanto sul dolore, il famoso dolorismo della Rai era diventato non solo stucchevole, ogni volta che succedeva un fatto grave dal punto di vista della morale pubblica, dal punto di vista della violenza più o meno forsennata di singoli o di gruppi si impiantava una trasmissione che aveva la facoltà di far durare il dolore, la commozione un’infinità di puntate tante quante potevano essere le risorse del fatto che si prendeva ad esempio per realizzare una fiction. Tutto questo dovrà svolgersi all’interno di una rivisitazione completa del significato di servizio pubblico, dovranno finire le concessioni rassegnate al fatto che il consenso è tanto più vasto quanto più vasto è il tenore e bassa è la qualità del prodotto che viene offerto, questo non può essere il servizio pubblico, il servizio pubblico non deve mirare allo share e quindi al buon senso numerico, deve puntare sulla qualità del prodotto quindi al consenso critico di chi vende e di chi ascolta, questa è una trasformazione epocale, se va in porto anche la seconda fase si potrà dire che quella mia frase “da oggi la Rai non è più la stessa” non sarà più un auspicio ma sarà una realtà finalmente raggiunta.”
Ritratto intervista di Massimo Emanuelli realizzato nel maggio 2009, aggiornato nel luglio 2012
La notte del 4 dicembre 2012 quattro uomini irrompono nell’abitazione di Sergio Zavoli, si tratta di un gruppo di rapinatori che entra nella villa nelle campagne di Monte Porzio Catone, alla porte di Roma. Zavoli viene minacciato e rinchiuso in una stanza: Zavoli e’ colpito più volte alla testa, anche con il calcio di una pistola, dai banditi che volevano che rivelasse loro dove fosse la cassaforte. Al primo rifiuto, il senatore è stato colpito, probabilmente con il calcio della pistola. Una volta trovata la cassaforte, i rapinatori, due italiani e due stranieri, l’hanno smurata e sono fuggiti con un bottino di alcune decine di migliaia di euro. Zavoli e due domestici, anche loro dell’est Europa, sono stati poi rinchiusi in bagno dal quale si sono liberati quando i banditi erano già spariti. Lo stesso giornalista ha raccontato la terribile esperienza a Radio Capital. Ha avuto «tanta paura», dice, anche se «ben governata, anche perchè capivo che agivano sulla base di un repertorio per intimidire e impaurire le persone». Zavoli spiega di aver subito «la roulette russa: erano convinti che al terzo clic sarei svenuto o avrei detto chissà che cosa. Ho capito che era un modo per spaventarmi e mi sono limitato a dire: la smetta con questo giochino, se la rimetta in tasca. E l’altro, un italiano, l’ha preso per un braccio e l’ha portato via». Zavoli riconosce anche di aver affrontato la situazione con forza: «Tutto quello che mi accade – sottolinea il presidente della commissione di Vigilanza – non mi sorprende molto: in determinati momenti trovo che l’unico modo di pensare quella cosa è di uscirne e come fare. Non mi arrendo mai alla disperazione, né ricorro a grandi astuzie che non avrebbero effetto, se non quello di incattivire ulteriormente gli aggressori». Ai microfoni dell’emittente Zavoli preferisce non raccontare ulteriori dettagli: «Mi aspetto rappresaglie, ho paura», conclude. Il giornalista, medicata all’ospedale di Frascati dove ha passato la notte, è stato dimesso dopo un giorno, sul suo volto un profondo ematoma.
Alle elezioni del 24 e 25 febbraio 2013 Sergio Zavoli viene rieletto in Senato e nominato membro della 7a Commissione permamente (Istruzione pubblica, beni culturali) e presidente della Commissione per la biblioteca e per l’archivio storico.
Il 21 settembre 2013 Sergio Zavoli compie 90 anni la città di Rimini lo festeggia e gli conferisce il Premio Paolo Giuntella di Articolo 21, lo annunciano Federico Orlando e Beppe Giulietti presidente e portavoce dell’associazione: «La sua – si legge nella nota di Articolo 21 – è stata ed è una di quelle vite che hanno onorato le istituzioni repubblicane ed esaltato i valori racchiusi nell’articolo 21 della Costituzione. Per queste ragioni, oltre a mandargli un grande abbraccio augurale, abbiamo anche deciso di assegnare proprio a Sergio Zavoli il nostro tradizionale premio ‘Paolo Giuntella’ dedicato a chi ha speso la propria vita a favore della libertà di informazione e della illuminazione di temi e mondi che, altrimenti, sarebbero restati oscurati, cancellati, umiliati
I festeggiamenti iniziano alle 17 al Teatro degli Atti con Ettore Scola che presenta ‘Che strano chiamarsi Federico’, il suo film-omaggio al grande maestro del cinema italiano nella sua Rimini. A seguire la proiezione di ‘Zoom su Fellinì, il documentario realizzato da Sergio Zavoli sul grande amico Federico. Ha concluso i festeggiamenti, alle 21 sempre al Teatro degli Atti, l’incontro dal titolo ‘Sergio Zavoli ha novant’anni: confronto con un grande testimone del nostro tempo’ in cui sono intervenuti Ettore Scola, Valter Veltroni, il sindaco Andrea Gnassi e lo stesso Sergio Zavoli. «Abbiamo voluto questo evento con tutta la passione e l’affetto che meritano i compleanni delle persone speciali – ha detto il sindaco di Rimini Andrea Gnassi – per festeggiare gli splendidi 90 anni di un grande italiano, un italiano speciale, un testimone che sa raccontarci i fatti e i sentimenti della vita con la stessa poesia, con l’incantamento e lo stupore di un bambino e la lucidità di chi vede in profondità prima degli altri».
Sergio Zavoli negli ultimi anni si era dignitosamente ritirato dalle scene, aveva un profondo rammarico per l’imbarbarimento di alcuni costumi che aveva notato durante la sua ultima legislatura in Senato (erano già arrivati i 5 Stelle). Sergio Zavoli è morto a Trevignano Romano il 4 agosto 2020, per sua espressa volontà è stato sepolto a Rimini accanto all’amico Federico Fellini.
SERGIO ZAVOLI E LA RADIO
L’avventurosa storia della radio pubblica italiana. Da Maria Luisa Boncompagni a Luca Barbarossa
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